martedì 15 aprile 2008

DOVE VANNO I SOLDI DELLA RICERCA?

Un articolo di Andrea Ichino pubblicato su Il Sole 24 Ore il 12 aprile 2008
Il Sole24Ore ha recentemente ospitato un appello degli scienziati italiani al Presidente Napolitano, affinché i fondi per la ricerca vengano allocati solo sulla base di parametri riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale, ossia mediante la cosiddetta peer review, che consiste in una valutazione regolamentata, anonima e indipendente del merito scientifico di ogni progetto di ricerca. È un appello importante perché tutti in Italia lamentano che si spende poco per la ricerca scientifica, ma pochi sanno che una gran parte degli scarsi fondi disponibili si perde in mille rivoli a favore di enti e persone che poco o nulla contribuiscono a una seria ricerca di livello internazionale.Un ambito nel quale è urgente che il futuro governo intervenga affinché l’appello non rimanga lettera morta è quello dei numerosi istituti pubblici che in vario modo producono ricerca statistica ed economica finanziata con le tasse dei cittadini: ad esempio l’ISFOL, l’ISAE, l’ISTAT, lo SVIMEZ, ai quali si aggiungono i ricercatori, stabili e occasionali, all’interno del CNEL, dei Ministeri, delle Regioni, degli altri Enti locali, delle varie authorities e della Banca d’Italia nella sua sede centrale e in quelle decentrate. Una legione di ricercatori e di personale amministrativo al loro servizio, che costa allo Stato una cifra difficile da valutare, ma sicuramente rilevante, per produrre un’infinità di rapporti di ricerca che spesso si sovrappongono per oggetto, metodi e risultati, senza che esista una qualsivoglia misura della loro efficacia. I soli primi cinque tra gli enti sopra nominati hanno ricevuto dalla finanziaria 2008 più di 280 milioni di euro, che corrispondono a oltre il 10% della spesa totale per la ricerca stanziata nello stesso anno dal ministero competente. Può darsi che questi soldi siano ben spesi; ma sarebbe opportuno verificarlo. E un modo per farlo è quello appunto auspicato nell’appello degli scienziati di cui si è detto: la peer review.Qualcuno potrebbe obiettare che questi enti non sono dipartimenti universitari perché fanno altro e che comunque in Italia nemmeno i dipartimenti universitari sono valutati in questo modo (con l’unica e benemerita eccezione delle valutazioni del CIVR del 2005, misteriosamente dimenticate dal governo Prodi e che speriamo il prossimo governo voglia riprendere e rendere operative).Ma per quale motivo un governo dovrebbe utilizzare rapporti di ricerca basati su metodi e teorie superate dalle frontiere della scienza? È come se, essendo già disponibili le scoperte di Copernico e Galileo, quel governo si servisse ancora di scienziati tolemaici. È successo così nel passato e le conseguenze le conosciamo bene. Ma non dovrebbe più accadere. La politica ha bisogno di buona ricerca e attualmente il metodo della peer review, per quanto imperfetto, è il migliore che la comunità scientifica internazionale sia riuscita a trovare per valutare la bontà del proprio lavoro.Non sorprende quindi che il Servizio Studi della Banca d’Italia sia unanimemente considerato come di gran lunga il migliore tra gli enti in questione: è l’unico i cui ricercatori sono seriamente selezionati anche sulla base della loro capacità di produrre ricerca di valore internazionale, sono periodicamente mandati a “risciacquare i loro panni” nell’Arno delle migliori università mondiali e sono invitati non solo a fare il loro lavoro istituzionale ma anche a produrre ricerca pubblicabile sulle migliori riviste scientifiche. Richiesta che per questi ricercatori significa lavorare ben di più dell’orario standard di un ufficio statale, ma che rende autorevole e ascoltata la loro voce. Non solo, ma è sempre questo stesso Servizio Studi ad aver prodotto e messo a disposizione di tutta la comunità scientifica la prima (e a tutt’oggi quasi unica) banca dati utilizzata per fare ricerca microeconomica in Italia: l’Indagine sui Bilanci delle Famiglie Italiane.Fuori da Via Nazionale, il panorama degli istituti pubblici offre un quadro ben diverso sia per la qualità della ricerca, sia per la predisposizione di banche dati facilmente accessibili (in questo l’Istat è ancora alla preistoria). Ma ciò che più preoccupa è che l’allocazione dei fondi pubblici a questi enti non sembra riflettere alcuna qualsivoglia (purchè trasparente) valutazione della loro produttività. �Basti per tutti l’esempio dell’ISFOL: essendo finiti i fondi europei che hanno consentito a questo istituto di espandersi negli anni recenti senza che la sua attività abbia prodotto risultati anche lontanamente comparabili a quelli del Servizio Studi della Banca d’Italia (perché, per esempio, non ha fatto partire un’indagine longitudinale come l’americana School and Beyond, che sarebbe essenziale in Italia per valutare il sistema scolastistico e studiare i problemi della transizione tra scuola, formazione e mondo del lavoro?), l’ultima finanziaria ha stanziato un incremento dei suoi fondi da 10 a 40 milioni di euro, la stabilizzazione di 302 precari e la trasformazione in contratto a tempo indeterminato di altre 249 posizioni di collaborazione, chissà come inizialmente selezionate.In un comunicato della CGIL del 3 agosto 2007 si legge che le Organizzazioni Sindacali e l’amministrazione hanno concordato i seguenti criteri, in ordine di priorità, per le graduatorie relative alle stabilizzazioni: anzianità di servizio presso l’Isfol o altre amministrazioni, idoneità acquisita in altri concorsi pubblici di qualsiasi tipo, appartenenza a categorie protette e età anagrafica. Non solo tra questi criteri non si parla di peer review, ma nemmeno si menziona la produttività scientifica, comunque valutata, dei singoli ricercatori!Il sindacato dirà: ognuno faccia il suo mestiere; il mio è quello di migliorare le condizioni di vita dei miei rappresentati e delle loro famiglie. D’accordo. Ma è sicuro il sindacato che ai figli di quei lavoratori convenga vivere in un paese in cui i fondi per la ricerca vengono utilizzati per finanziare i redditi dei loro genitori o comunque di chi non fa ciò che la comunità scientifica internazionale considera vera ricerca?
Andrea Ichino

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